Decima puntata della rubrica che vede Daniele Bazzani e Giovanni Onofri parlare delle...
Sarà perché studiano chitarra e quindi hanno una sensibilità diversa dai loro coetanei, ma arrivano da me con richieste su come suonare questo o quel pezzo dei Led Zeppelin, Beatles, Stevie Ray Vaughan, fate voi, i nomi sono quelli. Oppure con gruppi improponibili che penso inventino apposta per prendermi in giro, visto che non li ho mai sentiti nominare. Meno male per loro, che sono giovani, io ormai sono legato alla musica con cui sono cresciuto.
In realtà volevo dire altro, ma inizio da qui
A scuola mi capita di vedere adolescenti preparare un laboratorio, o esplorare youtube sul Pc della scuola in attesa della loro lezione, ascoltando questo o quell’artista. E mi ha colpito il fatto che tutti, di ogni età, inevitabilmente, siano rapiti, estasiati, conquistati, dalla musica e dalla voce di Jeff Buckley.
E tutti, come me, sono in particolar modo colpiti dalla sua versione di “Halleluja” di Leonard Cohen. Che meraviglia, una cover straordinaria, solo chitarra e voce per entrare nella storia, dritti dalla porta principale.
E questi ragazzi non hanno la minima idea di che personaggio sia Leonard Cohen, non avrebbero mai ascoltato una sua canzone se non fosse stato per Buckley, e forse non ne ascolteranno mai un’altra.
Jeff, andato troppo presto.
Buckley era un ottimo chitarrista, come testimonia quel brano, ma ancora meglio lo fa il mini CD - una volta si chiamavano EP - registrato al Sin-è di New York, negli anni ‘90. In quel piccolo club dove credo si esibisse di frequente,
Buckley fu registrato, suonò e cantò divinamente, fornendo interpretazioni memorabili di brani come “The Way Young Lovers Do” di Van Morrison e “Je N’en Connais Pas La Fin”, in una versione di quelle che, se non piangete, beh allora andate a farvi una lastra per controllare se avete ancora il cuore.
In realtà volevo dire altro
Buckley quella sera diede una lezione, a tutti noi musicisti.
Di fronte ad appena qualche ascoltatore, difficilmente erano più di una trentina, a giudicare dalle foto sulla copertina e dagli applausi alla fine dei brani, il cantante figlio d'arte (Tim Buckley era suo padre) fornì una prestazione maiuscola, di quelle da incorniciare. Si espresse come fosse in mondovisione o sul palco del teatro più grande del pianeta, non importava che davanti avesse solo qualche volto, perché probabilmente aveva gli occhi chiusi, non si suona e non si canta così, ad occhi aperti.
A lui non importava che il pubblico fosse scarso, perché suonava per ognuno di loro, se hai davanti una sola persona merita la stessa considerazione di centomila, il rispetto non si moltiplica. E perché certamente suonava per se stesso. Uno come lui non sale sul palco per soldi, ma solo perché è la sua vita. La sua anima e il suo cuore sono al servizio totale, indiscusso, della passione.
Si narra di come Paulo Roberto Falcao volesse sempre vincere, anche nelle partitelle sulla spiaggia.
E questa è la lezione, che dobbiamo tenere a mente ogni volta che saliamo sul palco, in qualche locale semivuoto e nel momento in cui ci chiediamo “Ma chi me l'ha fatto fare?”. Non so a voi, ma a me non l’ha ordinato il medico, e il rispetto che “sento” di dovere a chi ha dedicato qualche ora della sua vita a me o al mio gruppo, per una serata che non riavrà mai indietro, è più grande di qualsiasi dubbio.
Ed è soprattutto il rispetto per me stesso, perchè se non mi rispetto da solo, non posso pretendere che lo facciano gli altri.
Daniele Bazzani
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