Decima puntata della rubrica che vede Daniele Bazzani e Giovanni Onofri parlare delle...
Rice Miller (Helena, Mississippi 1897) deve la sua affermazione al lancio della trasmissione radiofonica King Biscuit Time (Radio KFFA di Helena, 1940) in cui partecipa in veste di ospite fisso e alla frequenza delle sue esibizioni (praticamente quotidiane dall’età di vent’anni e ovunque, in lungo ed in largo per tutto il Sud).
La notorietà raggiunta all’inizio degli anni ’50 negli stati del Sud gli permette di muoversi verso Chicago ed entrare così in contatto con il mercato discografico “che conta”. Infatti inizia a collaborare regolarmente con Elmore James (assieme registrano anche Dust my Broom) dando vita ad un suono vivo e coinvolgente che gli vale lo ingaggio stabile della neonata Chess (Aristocrat dal 1947 e Chess dal 1950 in poi, attraverso numerosi cambi di proprietà).
Del 1955 è il primo, vero hit: Don’t start me to talking, registrata con la band di tale (...!?!) Muddy Waters, ottiene un discreto numero di vendite ma è nel 1962 con l’ invenzione dello shuffle Help Me (Baby) che raggiunge la grande affermazione a livello mondiale.
Il grande successo di questo brano gli permette di registrare anche con Yardbyrds ed Animals conquistando il mercato Europeo grazie anche al suo carattere mite. Negli anni seguenti lo sciacallaggio delle persone che lo circondano lo riduce in miseria fino al 1965, anno in cui la morte lo raggiunge ad Helena.
John Lee e Rice Miller trasformarono un “quasi giocattolo” in uno strumento affascinante e dotato di personalità al punto che molti li considerarono maestri ed ispiratori: sopra tutti Little Walter e Walter Horton; più recentemente Charlie Musselwhite; ai giorni nostri Terry McMillian, Andy J. Forest e gli Italiani Fabio Treves ed ahimè il grandissimo Antonio D’ Adamo (dei Ferraresi The Bluesmen ... quanto ci manchi Antonio ... ) proseguono ... avete letto bene ... proseguono ... in una delle pagine più caratteristiche della grande storia del Blues.
Muddy Waters dunque, al secolo McKinley Morganfield (Mississsippi 1915): chiedete chi era a Chuck Berry, oppure a Keith Richards e Mick Jagger.
Vi risponderanno, a piena voce, che è stato uno dei tre più grandi ed influenti artisti che questa musica abbia mai avuto: The Blues had a baby and they named it Rock’ n’ Roll (Il Blues ebbe un figlio e lo chiamarono Rock’n’Roll); ho reso l’idea, almeno in parte?
Apprese i primi rudimenti della tecnica “slide” da Robert Johnson e si trasferì a Chicago agli inizi degli anni ’40 dopo essere stato “scoperto” da Alan Lomax, illustre musicologo.
I Can’ t Be Satisfied del 1948 è il primo di una serie di successi del tutto paragonabili a quelli di Robert Johnson: Honey Bee, She Moves Me, (I’m your) Hoochie Coochie Man, I’m Ready, Mannish Boy, Got My Mojo Working; a centinaia (e non sto scherzando) sono gli artisti che nel corso degli anni hanno interpretato questi veri e propri “pezzi di storia”; i primi che mi vengono in mente ... Chuck Berry, Elvis Presley, Rolling Stones, Eric Clapton, Van Morrison ... vi bastano?
Grazie a queste canzoni Muddy Waters, non solo definì il Chicago Sound come nessuno prima e dopo di lui, ma raggiunsel’essenza stessa ed il significato più profondo del Blues incarnandone lo spirito, la cultura e la tradizione.
Uomo dotato di personalità forte e magnetica, Muddy Waters si circondò sempre di ottimi musicisti: LeRoy Foster, Willie Dixon, Mojo Bruford, James Cotton, Otis Spann e tanti altri nel corso degli anni, protagonisti a loro volta di carriere soliste significative.
La fama mondiale raggiunta e la partecipazione a tutte le manifestazioni possibili lo portarono a rivedere il ruolo del “33 giri”: non più solo una raccolta di singoli Hit ma anche un vero e proprio documento; così vengono pubblicati dalla Chess At Newport (live, 1960), Folk Singer (1963), Electric Mud (Cadet, 1968), fino al vertice They Call Me Muddy Waters 1951-1967 (Chess 1971) che venne premiato con un Grammy.
Anche se discusse, le collaborazioni con Bo Diddley (l’inventore della ritmica Offbeat) e Howlin’ Wolf (Super Blues e Super Blues Band) sono testimoni dell’importanza del personaggio e della influenza esercitata dalla sua musica.
Dopo il distacco dalla Chess avvenuto all’inizio dei ’70, il suo grande discepolo, Johnny Winter, lo appoggia con la Blue Sky (Columbia); questosodalizio culminerà con la pubblicazione dei magnifici LP Hard Again (1976) e Muddy “Mississippi” Waters Live (1978).
I problemi fisici dovuti all’età ne condizionano la attività musicale fino all’anno della morte, avvenuta a causa di un infarto nel 1983; fu uomo umile e cortese ed il vuoto lasciato dalla sua scomparsa rimarrà per sempre incolmato.
Contemporaneamente allo sviluppo urbano del Blues, tra il 1940 ed il 1950, è possibile assistere a due fenomeni importanti: a causa della fusione della struttura del Blues con i ritmi ballabili di origine europea nasce il Rhythm and Blues.
Inoltre, i leader delle orchestre formatesi durante la II Guerra Mondiale, pur essendo in grado di suonare sia musica da ballo che swing (più impegnativo tecnicamente; considerate che in questa situazione nasce l’assolo di sax) si trovarono nella condizione di dover scegliere uno dei due generi; questo a testimonianza di come il Blues, nonostante fosse divenuto un fenomeno diffuso a livello nazionale, manteneva una certa rigorosità e coerenza che mal tollerava le contaminazioni con i generi allora contemporanei; non solo, la musica nera era considerata ancora espressione di un popolo diverso, prova ne sia il fatto che Billboard nel 1946 adotta il termine Race Music per indicare la produzione e la classifica distinta dalle altre della musica per neri.
Chi proseguirà con lo Swing (Louis Armstrong e Charlie Christian sopra tutti) darà il “LA” alla nascita del Jazz: nuovo, diverso, complesso nella struttura e nei contenuti ma profondo e creativo; mentre nel Rhythm and Blues si assisterà alla affermazione di Aretha Franklin, Wilson Pickett, Otis Redding, Antoine “Fats” Domino (comunque non i soli) che meriterebbero da soli interi volumi e trattazioni ben più approfondite di quelle oggetto in questa sede in cui si è voluto seguire il “Blues” ed i suoi protagonisti più influenti.
Sotto questo punto di vista, ancora oggi leader di una orchestra, sintesi dei suoi predecessori e precursore dei tempi fu Riley King, il Blues Boy più conosciuto come B. B. King.
B. B. King è uno dei tre o quattro personaggi (sto parlando in termini assoluti) che nel corso della storia sono stati in grado di sintetizzare l’estetica nera del Blues e l’armonia multirazziale, donandoci una musica universale.
Anch’egli nativo del Mississippi (Itta Bena 1925) viene “svezzato” attraverso i canti religiosi della chiesa ed il Country, lo Swing ed il Blues uditi attraverso la radio.
Giovanissimo (B. B. sta per Blues Boy), inizia a fornire l'accompagnamento in chiesa ai gruppi vocali e a suonare il Blues e lo Swing agli angoli delle strade.
Per intercessione di Rice Miller, ottiene un ingaggio a Memphis con la Modern, allora consorella della Ace ed in seguito rilevate dalla MCA, che nel 1949 ne pubblica l’esordio: Miss Martha King (indovinate a chi è dedicata) e Talk a Swing With Me.
Agli anni successivi appartiene la serie di Hit che gli dona grande fama nell’ ambiente del R’n’B (You Know I love You, Woke Up This Morning, Please love Me, ecc...) e gli permette di raffinare il rapporto con la sua chitarra Lucille: una Gibson ES355 stereo completamente nera ed il suo vibrato naturale sarà imitato da un’intera generazione di chitarristi ... vero Eric?
In questo decennio nascono i grandi classici Everyday I have the Blues, Bad Luck, Sweet Little Angel, Ten Long Years, Sweet Sixteen, Please Accept My Love, ecc ... ed allargati i propri orizzonti alle influenze di Charlie Christian e Duke Ellington: gli albums My Kind Of Blues del 1960 e Confessin’ The Blues del 1962 ne sono un chiaro esempio.
Eclettico Bluesman, dotato di humour e carisma, appassionato cantante soul, con Help The Poor, How Blue CanYou Get e Rock Me Baby (1964) e con gli albums Live At The Regal (1964), Paying The Cost To Be The Boss (1966), Why I Sing The Blues (in cui compare The Thrill Is Gone, 1969), afferma il proprio dominio sul mercato dei neri; successivamente, con i potenti Live & Well (1969), Completely Well e Indianola Mississippi Seeds (entrambi del 1970) legittima la conquista anche del mercato rock dei bianchi.
Una media di concerti superiore ai trecento (300!!!) ogni anno, una lista di collaborazioni e partecipazioni varie più lunga di un calendario (Elvis Presley, Ray Charles, Gil Evans, The Crusaders, Eric Clapton, sino ad U2, Gary Moore, George Jones e Randy Travis ... così, tanto per gradire ...), festivals Blues, Jazz, colonne sonore, apparizioni cinematografiche e televisive, hanno contribuito a renderlo la figura più famosa e rappresentativa di tutta la musica nera, superiore persino a Jimi Hendrix.
Nel 1998, a settantadue anni suonati, B. B. King si è tolto la soddisfazione di riportare la sua musica là dove tutto ha avuto inizio: Blues On The Bayou (registrato in studio totalmente dal vivo) è uno degli episodi più belli di una carriera senza precedenti, caratterizzata da standard qualitativi sempre molto elevati; oggi Riley King ha oltrepassato serenamente gli ottanta anni ed ancora entusiasma il pubblico ai suoi concerti, possa il buon Dio proteggerlo ancora per lungo tempo e donargli salute e serenità.
Prendo un piccolo spazio per me ... perdonatemi: ho avuto la fortuna di incontrare B. B. King (... ho i testimoni ... :-)) e di trascorrere un paio d’ore in sua compagnia, libero dalla formalità dell’autografo e dalla frenesia del “dopo concerto”. Superati i primi minuti di diffidenza e distacco che riconosco giustificati, questo uomo cortese, simpatico e dolcissimo mi ha aperto il suo cuore, ringraziando me della spontaneità dello incontro.
Quelle due ore di quel tardo pomeriggio di fine estate, trascorse a chiacchierare affettuosamente come ... nonno e nipote hanno lasciato in me un senso di “armonia” difficile da descrivere; che emozione osservare l’umile serenità sul viso di questa autentica leggenda vivente ...
Attraverso la musica di B. B. King e soprattutto quella del suo contemporaneo più affine, James Brown, il popolo di colore muta la propria voce da lamento ad affermazione e rende coscienza al mondo intero del proprio essere popolo vero e nazione vera, trovando nel nativo di Omaha (19 maggio 1925) l’apostolo che lo guiderà negli anni successivi: Malcolm Little, meglio noto come Malcolm X.
Il ritmo e la chitarra
Più volte è stato spiegato come il Blues sia una musica imprescindibilmente legata all’evolversi della vita della popolazione nera ed agli avvenimenti che ne hanno segnata la storia.
Dal punto di vista sociale, non vi è dubbio che il fatto determinante per la storia della comunità nera fu la affermazione, come “leader”, di Malcolm Little (Omaha, 1925)figlio di un predicatore che ancora giovanissimo aderì alla setta dei Musulmani Neri guidata da Elija Muhammad e che cambiò il proprio nome assumendo come pseudonimo Malcolm X.
Seguendo Elija Muhammad il giovane Malcolm apprese le dottrine Marxiste e rivoluzionarie di chi, con rabbia e non con umile rassegnazione, predicava la libertà e la uguaglianza; nel 1964 Malcolm X rompe con quella che era una vera e propria setta per agire in un ambito politico che gli permette di avere accesso ai mezzi di informazione di massa e di raggiungere così più facilmente la moltitudine di uomini a cui il proprio messaggio era naturalmente rivolto.
Ponete attenzione alla dedizione quasi furiosa con cui Malcolm X teorizzava un ritorno alla madre Africa, alle origini, alla convinzione che alla base e sopra tutto fosse l’uomo con la sua storia e la sua vera spiritualità, contrapposta a quella falsamente religiosa praticata da quello stesso bianco che nella quotidianità sociale ancora discriminava chi, come scritto sulla Bibbia, era suo fratello.
Malcolm X venne ucciso a New York nel 1965 al termine di un incontro di propaganda ma non fu assassinato perché nero; e non fu assassinato nemmeno perché indusse i propri fratelli alla protesta; Malcolm X venne assassinato quando il potere Americano si rese conto che stava riportando nella sua popolazione, la coscienza delle proprie radici, della propria storia, delle proprie tradizioni ancora così legate alla propria terra di origine in un modo profondo e radicale.
Il bianco Americano si accorse che non avrebbe mai potuto aspirare ad un dignità storica così profonda, molto semplicemente perchè non la possedeva: per questo la rivoluzione di Malcolm X non fu una rivoluzione sociale ma fu una vera e propria rivoluzione culturale anche se l’uguaglianza e l’integrazione razziale avrebbero costituito una meta ben lontana dall’essere conquistata definitivamente.
Malcolm X aveva trasmesso nei suoi fratelli, la convinzione che la terra della speranza non fosse l’America della falsa dignità e democrazia ma l’Africa: sola e unica terra di origine del nero.
Va’ da sé che la nazione di colore rifiutò tutto ciò che era “di origine bianca”: anche il Blues, musica non “pura” ma “di contaminazione” ricevette uno duro colpo poiché l’impronta bianca sarebbe stata lasciata in disparte in favore della impronta “originale” nera: quei ritmi tribali che avevano scandito la crescita di un intero continente.
Contemporaneamente alla ascesa politica di Malcolm X (siamo all’inizio-metà degli anni ’60), le radio cominciarono ad avere una parvenza di autonomia e non furono rare le trasmissioni che ne ripresero le enunciazioni ma la mossa vincente di Malcolm X, non fu tanto quella di servirsi delle tecnologie disponibili all’epoca ma di stimolare la fratellanza nera attraverso la aggressività di un giovane cantante cresciuto alla corte di Bobby Byrd & The Gospel Starlighters: James Brown.
Irrequieto sin da giovanissimo, nel 1956 James Brown forma i Famous Flames con i quali registra Please, please, please ottenendo un successo abbastanza lusinghiero.
I primi guadagni permettono a J. B. di formare la James Brown Revue, con scenografie ed apparizioni femminili che ne caratterizzeranno le sue infuocate esibizioni dal vivo sino ai giorni nostri (la scenetta della resurrezione è stata ripresa persino da quell’Italoirlandese … nel suo concerto a S. Siro del 21 giugno 1985 … scusate ma proprio non ne ricordo il nome …) anche se il successo definitivo verrà raggiunto solo nel 1963 con il giustamente storico Live at the Apollo; James Brown diventa James Brown e negli anni successivi percorre fino in fondo le vie stilistiche intraprese che gli permettono da un lato di fissare definitivamente quel Jungle Groove che tanti proseliti avrebbe fatto negli anni a venire (anche se con risultati non proprio fedeli all’originale: qualcuno ha mai sentito parlare di Prince?), dall’altro di bruciare letteralmente le classifiche con Papa’s Got A Brand New Bag e I Got You (entrambe del 1964).
Ormai Brown è diventato il punto di riferimento per i neri anche in virtù dell’orgoglio razziale manifestato in Say It Loud: I’m Black And I’m Proud (1965) e questo gli permette di intervenire anche in avvenimenti di carattere socio – politico: è colui che si adopererà per calmare le folle dopo l’assassinio di Martin Luther King (che assieme a Malcolm X fu l’alfiere della protesta nera).
Con It’s A Man’s Man’s World (1966) torna su territori più “soul” e nel 1968 pubblica il suo capolavoro: Live At The Apollo Vol.2: cronaca di una di quelle serate che riescono raramente nella carriera di un artista.
Brown percorre gli ultimi anni ’60 e i ’70 sino ai primi anni ’90 cavalcando le classifiche con brani dalla ritmica sempre più ossessiva (I’m Feel Like A Sex Machine, veicolo per improvvisazioni-fiume anche per chi non è propriamente avvezzo alle ritmiche del Funky) ed in seguito sempre più commerciali raggiungendo vette di popolarità degne di una superstar (si pensi al celebre Livin’In America del 1985) ma senza più manifestare il sacro furore che lo rese simbolo della protesta razziale e violento stregone nelle sue esibizioni da vivo.
Lauro L27
PS: la prima parte la puoi leggere cliccando qua.
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