Decima puntata della rubrica che vede Daniele Bazzani e Giovanni Onofri parlare delle...
2010 - The Final Frontier
A distanza di quattro anni (periodo più lungo di intervallo tra un album e l'altro) dal precedente album A Matter of life and death, eccoci di fronte ad un album che ripercorre tutte le classiche sonorità che hanno caratterizzato gli ormai 35 anni di storia degli Iron, ma con un gusto decisamente superiore rispetto all'ultimo decennio.
Personalmente ritengo quest'album all'altezza di Brave New World (2000), album della reunion definitiva e dell'avvento delle tre chitarre.
Parlavo di gusto; infatti la cosa che mi ha maggiormente affascinato di Final Frontier è proprio il suono molto curato e definito delle chitarre, con soli molto belli e sentiti, suonati davvero bene e mai scontati; che non si discostano molto dai clichè maidiani, per carità, ma che, a differenza di alcuni album anche recenti, riescono ad avere un maggior impatto, un sapore vintage e moderno allo stesso tempo.
Sarà anche questo il motivo per cui l'album è stato un sorprendente ed ennesimo successo in tutto il mondo, sia di vendita che di classifica, scaturendo nel solito infinito tour mondiale di cui molti hanno tessuto le lodi.
Le canzoni
Ma veniamo alle canzoni: come sempre negli ultimi lavori le tracks sono 10, in realtà 11 in quanto la opener title-track viene introdotta da Satellite 15 che apre con un interessante intro strumentale, nel quale il basso del leader storico Steve Harris la fa da padrona.
The Final Frontier e la successiva El Dorado, scelti come singoli dell'album non a caso, sono gli unici momenti quantomeno scontati per quello che ci si attende dalla band, riff di chitarra granitici, tempi di batteria molto tirati e il solito ritornello a cavalcata; il tutto racchiuso in un minutaggio più ristretto (seppure la seconda traccia duri quasi 7 minuti).
E' proprio la lunghezza di ogni singolo brano (che li fa risultare da una parte prolissi ma dall'altro dona maggior respiro alle canzoni) e l'ottimo lavoro di cesello delle chitarre, su tutte quelle di Adrian Smith che ha firmato buona parte dei pezzi, a renderlo un ottimo ascolto anche per i neofiti del genere.
El Dorado può essere considerato il pezzo forte, quello che dal vivo spacca e viene cantato; certo non vi aspettate i mitici riff cantabili alla The Trooper, Fear of the Dark ecc.. I Maiden del passato non torneranno purtroppo, ma il fatto di aver sfornato un ottimo album a 55 anni di media a cranio, direi che è un grosso risultato a prescindere dalle hit-single.
Punti deboli non ce ne sono secondo me, i brani sono tutti piacevoli e ascoltabili, l'utilizzo delle tastiere in alcuni casi, come in Isle of Avalon, uno dei pezzi magari più classici, stende un ottimo tappeto nelle parti strumentali e cantate. Da sentire anche qui i soli.
Come negli album di una volta, i migliori pezzi non stanno all'inizio ma alla fine ed anche se The Alchemist e Mother of Mercy sono un gradino sotto, non mi sento di ritenerli dei meri brani riempitivi.
Dalla traccia sette l'intero lavoro si innalza nettamente, come girare sul lato B un vecchio vinile e ritrovare che sia il preferito, nettamente migliore del lato A.
Starblind è per me il miglior brano di tutto il cd, gli assoli di Smith sono veramente belli con un tone eccellente ed un gusto particolare, una bellissima ballad metal, in perfetto stile Maiden, copiata e stracopiata dai più nel corso degli anni ma, a mio modo di vedere, nessuno sa copiare bene i vecchi Maiden come i Maiden stessi! ;)
The Talisman ha un insolita intro acustica che ricorda molto i canti popolari irlandesi, come il racconto di una vecchia storia terrificante per bambini raccolti intorno ad un camino, la voce di Dickinson è semplicemente perfetta in questo brano, l'esplosione successiva riporta i toni sul vecchio sano metal come altrimenti non potrebbe essere; il ritornello è un po' scontato ma accattivante.
Chiudiamo con gli ultimi due brani, delle piccole suite da oltre 10 minuti l'una, sul vecchio stile di Rime of Ancient Mariner ma non a quegli altissimi livelli ovvio, un must da anni per tutti gli album a seguire quel glorioso periodo.
The man who would be king ha una struttura praticamente identica alla precedente track ma con intro lenta scritta da Murray con un bel fraseggio di elettrica. Lo sviluppo del brano presenta una parte centrale con un altro solo molto lungo, sorretto da chitarre ritmiche e, insolitamente, da una guitar steel con un arrangiamento enorme e molto efficace che sfocia in una serie di stacchi ben strutturati, uno dei momenti migliori di tutto il lavoro.
Chiudiamo con l'opera di Harris, come spesso accade il brano/suite finale è tutta opera sua, d'altra parte si sa che ci tiene alle tradizioni! :)
When the wild wind blows per struttura e stesura mi ricorda moltissimo la traccia conclusiva del già citato Brave New World, rispetto al quale questo pezzo in particolare eredita moltissimo in fatto di sonorità.
Un album insomma a metà strada tra il nuovo e il tradizionale, superiore ai precedenti lavori per qualità, produzione e soprattutto per la ricchezza armonica dei brani.
Manca un vero singolo da stadio come sempre ci hanno abituato gli Iron nella ormai trentennale carriera, ma questo quindicesimo album da studio non mi ha affatto deluso, anzi, mi ha piacevolmente sorpreso.
The Final Frontier Tracklist:
1. Satellite 15....The Final Frontier (Smith/Harris)
2. El Dorado (Dickinson/Smith/Harris)
3. Mother Of Mercy (Smith/Harris)
4. Coming Home (Dickinson/Smith/Harris)
5. The Alchemist (Dickinson/Gers/Harris)
6. Isle Of Avalon (Smith/Harris)
7. Starblind (Dickinson/Smith/Harris)
8. The Talisman (Gers/Harris)
9. The Man Who Would Be King (Murray/Harris)
10. When The Wild Wind Blows (Harris)
Line-up
* Steve Harris - Basso
* Dave Murray - Chitarra
* Bruce Dickinson - Voce
* Niko McBrain - Batteria
* Janick Gers - Chitarra
* Adrian Smith - Chitarra
Mick Wall - Iron Maiden: le origini del mito
Titolo originale Iron Maiden: Run to the hills, la prima stesura/pubblicazione di questa biografia ufficiale risale al 1997 ma la traduzione italiana è solo del novembre 2010, con aggiornamenti che arrivano fino all'ultimissima uscita discografica appena recensita.
Mick Wall è un giornalista/scrittore cultore dell'Heavy Metal che ha iniziato la propria carriera proprio su alcune testate musicali londinesi intorno al '77, periodo di massimo successo del punk, quando ormai band che avevano fatto la storia del rock, come Led Zeppelin o Black Sabbath, venivamo etichettate come dinosauri o vecchie scorregge all'inno del No Future dei Sex Pistols e soci.
Proprio in questo periodo (1975) andavano formandosi gli Iron, capitanati dal giovane Steve ed è proprio dalle parole dello stesso fondatore che inizia questa biografia carica di interessanti citazioni; dai movimenti rock-metal di quegli anni che sfociarono, nei primi '80, in quella che viene ricordata come una delle più importanti scene musicali dell'epoca: la New Wave Of British Heavy Metal (NWOBHM come viene sempre abbreviata).
Il libro è suddiviso in capitoli dedicati proprio a tutti i personaggi di questa storia, attraverso i racconti e le riflessioni degli stessi; un mix tra racconto ed intervista che rende decisamente più accattivante il susseguirsi di facce, musica ed avvenimenti che hanno portato la band a diventare l'icona metal che tutti conoscono.
Ma come erano duri i primi tempi! Praticamente tutti gli attori di questa storia provengono dall'East End, quartiere/sobborgo londinese discretamente malfamato; sullo sfondo locali fumosi che ospitavano le prime esibizioni live della band, il loro modo di vivere, le difficoltà di sbarcare il lunario ma anche di riuscire a farsi uno zoccolo duro di fans.
L'obbiettivo dell'autore (e della band sicuramente) è quello di mettere in risalto quegli anni importantissimi, dalla nascita della band fino alla sostituzione di Clive Burr con Nicko McBrain in concomitanza con l'uscita del loro quarto album Piece of Mind, che ne decretò il definitivo successo a livello planetario ed il momento in cui la band divenne davvero ricca.
La cosa che mi ha lasciato veramente di stucco è stato infatti scoprire che solo alla fine del tour The Beast on the Road (siamo nel 1982), di ritorno dagli States, la band non se la passava economicamente bene, tutto ciò che veniva guadagnato veniva immediatamente reinvestito dal loro manager Rod Smallwood e la band riceveva un misero stipendio di un centinaio di sterline a settimana, nonostante 3 album pubblicati e centinaia di concerti l'anno.
Capitoli e personaggi
Così, con lo scorrere dei capitoli, facciamo conoscenza con personaggi che hanno dato il loro contributo decisivo al successo dei Maiden, ma anche nomi di persone affacciatesi per caso e che hanno avuto tra le mani la possibilità di dare una svolta alla propria carriera e alla vita intera, ma che sono rimasti con un pugno di mosche, oppure che hanno avuto altrettanto successo prendendo altre strade.
Ecco quindi spuntare nomi come quello del già citato manager Rod, onnipresente con il suo punto di vista praticamente da sempre: senza di lui la band probabilmente non avrebbe mai potuto raggiungere le vette, oppure Martin Birch, produttore di tutti gli album più importanti della band e che in passato aveva firmato gli album sui quali gli stessi Maiden avevano imparato a suonare, artisti come Deep Purple, Raimbow, Black Sabbath e Whitesnake devono una grossa fetta di successo a quest'uomo, per poi arrivare a Derek Riggs, semplicemente l'inventore di Eddie, mitica mascotte.
Alla lettura il libro risulta molto piacevole, in alcuni punti si intuisce la voglia di non andare troppo a fondo su momenti spiacevoli per la band, anche a livello di immagine, come l'allontamento del chitarrista Dennis Stratton o del batterista Clive Burr ma, soprattutto, dello stesso Paul Di'Anno, il quale però ha dato un ottimo contributo con interessanti aneddoti dei primi live della band.
Deludenti i capitoli finali che passano in rassegna gli anni dall'88 ai primi '90 in maniera abbastanza confusa e distaccata, per poi aggiungere alcune righe sugli ultimi avvenimenti (periodo da Blaze Bayley alla reunion del '99) che si possono leggere con maggior dettaglio ed interesse su wikipedia o siti dedicati alla band.
Ovviamente, come il titolo stesso tende a precisare, la biografia ha voluto espressamente romanzare il periodo di formazione della band ma è anche un interessantissimo documento su un periodo musicale molto fervido in Inghilterra in quegli anni e sulla NWOBHM, che ha fatto tanti proseliti in tutto il mondo e portato il genere metal, con i Maiden stessi, a vendere milioni di dischi in tutto il pianeta.
AlexUnder
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